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Domani

Teorema del giardiniere

Cumbernauld, Pruitt-Igoe e Corviale hanno un tratto in comune, un invariante essenziale per capire il perché del fallimento. Ma hanno anche delle differenze importanti che forse ci danno la chiave interpretativa per passare alle prospettive reali per il domani.

Il tratto comune è rappresentato dai progetti iniziali: tutti si riferiscono esplicitamente al razionalismo funzionale verticalista che per comodità riferiamo alla persona di Le Corbusier. Tutti prevedono strutture abitative verticali, strutture per servizi orizzontali, percorsi separati, verde comune e blocchi, o moduli, o quartieri distinti; tutti fingono spazio e orizzontalità alternando ampie aree libere agli edifici, ma questi sono alti dai nove piani in su e ripristinano la densità media urbana. In tutti i casi al progetto e alla fase costruttiva di case e infrastrutture è seguito l'abbandono non appena gli abitanti hanno incominciato ad affluire. In pratica il dato costante è che i progetti sulla carta funzionano, gli architetti e gli ingegneri sono magari bravi, la grande capacità costruttiva capitalistica è evidenziata da opere colossali, ma non appena arrivano gli abitanti, coloro per i quali dovrebbe essere stata ideata e realizzata l'opera, tutto si blocca. I soldi finiscono, i lavori sono interrotti, nessuno bada alle piccole cose che – come ognuno che abbia fatto un trasloco sa benissimo – fanno la differenza tra il vivere tranquilli e l'angoscia del "non finito". La manutenzione inesistente porta presto al degrado dei manufatti e questo dà inizio alla spirale del degrado anche sociale. Occorre sottolineare con forza le implicazioni soggiacenti all'espressione tanto cara all'architetto: "ideata e realizzata", che potrebbe indicare l'importanza del progetto, dell'arte come contrapposto a natura, del rovesciamento della prassi operato dall'uomo consapevole del proprio destino. Ma non è così: in ambiente casuale, com'è quello capitalistico, la realizzazione dell'idea è una sovrapposizione mistica alla realtà. Quest'ultima segue pedestremente le leggi del valore, mentre all'uomo non resta che l'utopia, il modello ideale che qualcuno dovrà tradurre in realtà. Come? Con idee, appunto, e la buona volontà, naturalmente.

Il tratto divergente è rappresentato dall'evoluzione dei vari progetti nel tempo. Essi cambiano non in base a miglioramenti previsti da un progetto cosciente ma, come tutte le cose capitalistiche, a posteriori, in seguito ai verificati fallimenti, nella solita sequenza "spacca e rattoppa" da noi tante volte presa in esame. Non ci si può stupire se, in questi comprensori, anche la vita diventa fatalmente un continuo "spacca e rattoppa".

Il Capitale deve agire in fretta, valorizzarsi e andare subito da un'altra parte. Non glie ne importa nulla degli abitanti, della famiglia che si sbrana fra le quattro mura e dell'arricchimento dei produttori di ansiolitici e antidepressivi. Quello che conta sono i cantieri, il cemento, l'acciaio, le strutture. Se queste ultime durano poco tanto meglio, si demoliscono e si ricostruiscono. Le piccole cose non portano profitto, mentre le opere colossali crescono abbastanza in fretta da permettere cicli d'accumulo brevi. Se poi languono per anni nell'attesa dei fantomatici servizi comuni, dei piccoli interventi, degli allacciamenti, delle aiuole, dei marciapiedi, dell'illuminazione ecc. al Capitale non interessa. A meno che questo stillicidio non permetta agli speculatori di ingigantire i prezzi rispetto ai progetti originari. Ad ogni modo, quel che più incide sul fallimento di queste opere non è tanto il ladrocinio, quanto l'impossibilità di mantenerle e soprattutto l'impossibilità di farle diventare aggregati umani. La manutenzione non conviene, e i progetti delle grandi opere non si curano certo di quello che succederà dopo: il tubo che perde, la presa che non funziona, lo scarico che s'intasa, il verde che va curato e gli spazi che vanno tenuti puliti. Senza la cooperazione degli abitanti tutto si sfascia. E la cooperazione è impossibile fra cellule aliene l'una all'altra: solo se hanno soldi gli alieni se la possono cavare, sborsando le loro quote per "servizi esterni" a pagamento.

Spinte verso soluzioni future si dimostrano irrazionali e la realtà capitalistica impone la regressione a forme egoistiche e commerciali. Ma, a parte le città ideali rimaste nel cervello degli utopisti e a parte la crescita reale delle città nel caos edilizio speculativo, che è il fenomeno di gran lunga dominante, la costruzione delle nuove città secondo i vari progetti umanistici globali ha effettivamente espresso potenziali evolutivi, anche se sono stati bloccati nei fatti dal modo di produzione attuale. Il tentativo di puntare verso il futuro c'è, ma è assassinato prima ancora che prenda forma sulla carta. Da almeno 5.000 anni, cioè dall'epoca delle prime città vere e proprie, la pianta di un alloggio è fatta sempre allo stesso modo: soggiorno, camera, cucina, con varianti inessenziali. Il motivo è che la casa è fatta per contenere la famiglia. Finché il modulo fondamentale della casa servirà a questo scopo, ogni sua moltiplicazione in palazzi da speculazione, unità di abitazione di super architetti o città di urbanisti più o meno illuminati non sarà altro che un eterno rimasticare vecchie solfe. Si perderanno o reintrodurranno gli ornamenti, vinceranno le forme dettate dai materiali, ma si vedranno sempre piantine con soggiorno, camera, cucina.

Il trionfo dell'isolamento "privato" contro il tentativo di spingere verso soluzioni comunitarie è ben rappresentato da un altro caso che ha fatto scuola, quello di Bijlmermeer. Si tratta di un'estensione urbana a Sud Est di Amsterdam, su cui l'edilizia pubblica pianificò e costruì negli anni '70 un quartiere-città. Il modello era quello solito di Le Corbusier. Anche in questo caso non era ancora terminato che gli urbanisti lo indicavano già come esempio di che cosa non bisogna fare: no alle astrazioni, no all'anonimità, no alle grandi dimensioni, no all'esasperazione del comunitarismo sociologico. Una volta costruito, ci si accorse che sorgevano i soliti problemi. Le lunghe gallerie di accesso sospese, le vaste aree a parco comune, i camminamenti sotto e attraverso le costruzioni, non erano utilizzati dagli abitanti secondo quanto era previsto dagli architetti. La gente abitava in città ma non conduceva vita urbana. Era circondata da spazi comuni ma viveva in compartimenti stagni. L'invivibilità, nonostante la crisi degli alloggi, produsse deprezzamento.

Il complesso fu quindi privatizzato, i grandi blocchi furono tagliati, le gallerie sostituite da ascensori, gli spazi comuni frazionati e assegnati agli alloggi, la densità abitativa fu aumentata. Per coprire il solito orrore del cemento a vista fu escogitato un lifting estetico che comportò l'aggiunta di pannelli in materiale fotovoltaico, titanio e vetro. Oltre che far recuperare energia dal sole, la ristrutturazione fece raddoppiare il valore commerciale degli alloggi e di conseguenza la nuova "tipologia" degli inquilini permise la cura e la manutenzione a pagamento delle aree privatizzate, compreso il verde circostante. Bijlmermeer ridivenne un quartiere piccolo-borghese qualunque. Solo questo può fare l'odierna società: oscillare fra il passato e il futuro in una schizofrenia la cui unica cura è il ritorno rassicurante al passato. Nuove eventuali comunità urbane non saranno per niente nuove e la vita comunitaria vedrà famiglie che in comune hanno solo il giardiniere condominiale e l'affitto da pagare. Ma chi l'ha stabilito che l'uomo possa avere in comune soltanto il nostro emblematico giardiniere?

Gli architetti dei massenwohnung per nullatenenti hanno prefigurato e generalizzato nel condominio il "centro sociale", dove di sociale non c'è nulla, solo atomi separati che si ritrovano, dove la tensione è tangibile, dove agli spazi comunitari è dato solo un nome e non una funzione che non potranno mai avere in questa società. E infatti vengono graffiti, sfregiati, disprezzati, vissuti con impotente aria di sfida, nell'esibizione di tutti i luoghi comuni sulla "diversità" che grande e piccola borghesia aborrono schifate. Quando gli "alternativi" sono massa c'è omologazione bella e buona, è persin banale osservarlo. Così, quando negli anno '50 e '60 il disegno del razionalismo purista divenne costruzione di massa, ciò che poteva stupire negli anni '20 divenne orripilante speculazione fine a sé stessa. I "rivoluzionari" palazzoni-mostro e gli architetti che li progettano a migliaia confluiscono nel generale piano di cementizzazione delle periferie metropolitane. Quando la pressione sociale cresce, al massimo si impreca contro le istituzioni inadempienti e la cosa più terribilmente di sinistra è diffondere qualche strofa di Bella ciao e lanciare un'invettiva al Berlusconi di turno. Si capirà mai che nel sessantottinesco "abbattere il sistema" c'è tanto riformismo quanto nell'odierno "abbattere Corviale", se non c'è la comprensione di cosa c'è dietro ad entrambi? Il fatto è che chi fa funzionare il sistema non si basa certo su frasi e i Berlusconi di turno le loro "città radiose", progettate per stare all'interno del sistema, le fanno funzionare, con i giardinieri, gli spazi per socializzare, le piscine e tutto quanto, anche se gli "umani" che le abitano non sono meno alieni l'uno all'altro, benché, certo, meno alternativi.

Il modo di produzione più socializzato della storia non riesce a socializzare l'ambiente in cui si manifesta la sua potenza. La sua inumanità sarà la sua condanna. La prossima società non sarà un modo di produzione ma un modo di vita in cui la produzione sarà sottomessa ai bisogni umani. Il fallimento della "città radiosa", non come tramite di speculazione ma come organismo sociale, è inscritto nella sua teorizzazione: essa è pensata e costruita come involucro per i bisogni di questa società, quindi per sé stessa, non per gli uomini che la abitano. Questo invece sarà il compito principale della società futura.

Appartenere ad una comunità umana

La nostra teoria ci dice che alla base della critica all'economia capitalistica deve stare la distinzione fra lavoro morto e lavoro vivo. Vale a dire che il capitalismo non si caratterizza per la questione della proprietà, titolo giuridico presente anche nelle società anteriori, ma per le condizioni generali di produzione, che permettono al borghese di essere sì proprietario di terre e di fabbriche (lavoro passato, morto), ma soprattutto di avere il diritto di sfruttare il lavoro vivo e di accaparrarsene i risultati. Non altro che questo è il senso della classica proposizione di Marx "antitesi fra produzione sociale e appropriazione privata".

Allora è chiaro che per il capitalista gli immobili hanno valore finché sono tramite di lavoro vivo e perdono d'interesse non appena termina la loro costruzione, quando cioè il capitale anticipato è ormai diventato capitale maggiorato. L'immobile in quanto tale, in quanto cioè accumulo di lavoro morto ormai pagato, passa alla rendita, oppure in proprietà al suo abitante in quanto bene durevole. Diventa capitale fisso solo dal punto di vista della dotazione generale della società capitalistica, che ormai va considerata come dedita alla produzione incessante di plusvalore nel suo insieme e non nei singoli momenti specificamente produttivi.

L'economia capitalistica non può, per sua intrinseca natura, avere soluzioni razionali per la conservazione del patrimonio generato dal lavoro passato (e ciò vale in ogni settore, non solo in quello edile). Per l'economia capitalistica tale patrimonio è morto, non è in grado di produrre plusvalore. L'alloggio-famiglia, come viene definito dalla nostra corrente, è mero tramite per l'applicazione di lavoro vivo e per riprodurlo biologicamente. Ma questa applicazione e riproduzione possono avvenire solo nella produzione di merci, non in altre attività. Perciò il capitale fisso, in quanto lavoro morto (capitale costante) deve solo passare il più rapidamente possibile nel prodotto finito e in ciò esaurisce il suo compito. Potrebbe essere progettato e utilizzato razionalmente in lunghi periodi, rappresentare il fondamento per l'applicazione ottimale del lavoro futuro, invece viene buttato via con molto anticipo rispetto alla sua naturale consunzione. Viene rottamato, come si dice oggi. Non viene mai accudito, fatto oggetto di attenta manutenzione, ravvivato, bensì ammortato. Il frenetico ciclo della produzione "al momento" distrugge la massa del patrimonio ancora utile e se ne frega degli uomini che nasceranno domani. Per questa società è una dannazione che la sua stessa scienza allunghi la vita e strappi tempo alla morte (la morte dilazionata degli anziani è un lucrosissimo business per i privati ma una dissipazione insostenibile per lo Stato). Questi, e non altri, sono i motivi del fallimento nel campo dell'edilizia sociale.

A Corviale, come in tutti gli altri luoghi analoghi, gli abitanti sono entrati nelle loro case quando i lavori non erano ancora finiti. Non sono finiti neppure adesso e probabilmente non finiranno mai. Solo un terzo del progetto originario è stato portato a termine, in pratica solo la parte abitativa del nucleo e non tutta quella comune che le doveva stare intorno. In realtà non sarebbero finiti neppure i lavori essenziali se gli abitanti del colosso non avessero lottato per questo. Ma è assurdo pensare che la completa realizzazione del progetto avrebbe comportato il suo automatico successo. Non esistono isole felici capitalistiche.

La battaglia continua cui gli abitanti sono stati costretti ha certo provocato un legame tra le persone, ha permesso di superare tempi duri e ha fatto saltare quello schema alienante così comune nei casi analoghi. Ma non è stato risolto nulla e il mostro sopravvive come contenitore per famiglie isolate. Nella normale vita di condominio nessuno riesce a sapere ciò che succede negli alloggi che danno sullo stesso pianerottolo, figuriamoci all'altro capo del mostro, a un chilometro di distanza. Il tam tam interno ha funzionato bene solo quando c'erano delle emergenze. Fuori di questo a Corviale c'è violenza e degrado come in tutte le periferie del mondo. Nonostante tutto – come abbiamo visto – gli abitanti dichiarano di viverci bene. Forse l'attaccamento è dovuto solo alla paura della demolizione, ma intanto si verificano episodi atipici rispetto agli standard non solo romani. C'è stata per esempio una solidarietà con gli zingari, mentre altrove si è tentato di bruciarli. Si è lottato a fianco degli stranieri, mentre altrove si è scatenata la solita guerra tra poveri, con reciproche accuse per il proprio malessere. Sono stati assimilati gli occupanti abusivi. Nell'emergenza continua è sorto un sentimento di appartenenza molto forte. Forse l'antico legame tribale ha avuto un suo moderno surrogato, manifestatosi con la "personalizzazione" degli spazi e la spontanea realizzazione di una "famiglia allargata" anche senza legami di sangue. Forse il mostro monoblocco ha permesso di mantenere aspetti di vita urbana che si sono amalgamati con istanze primordiali, echi dell'antica gemeinwesen, l'essere comune.

Forse. Ma non è possibile conoscere il perché di questa differenza in un caso troppo specifico. La stessa borghesia che studiò a fondo il problema generale dell'odio suscitato dalle unità di abitazione nei loro abitanti rimase sorpresa quando cercò di capire Corviale. Non ha scoperto né tantomeno risolto nulla, e tentenna sul da farsi, divisa fra recupero (ma in che modo?) e dinamite. Alcuni risultati, però, ci possono aiutare a capire ciò che ci serve per guardare al domani. Per vedere se essi non siano già elementi di affermazione del futuro, pur se rivoltati in negativo dalla società attuale. Osserviamo dunque come la lingua della borghesia batta insistentemente sul dente che duole.

Nelle teorizzazioni che precedettero la costruzione delle new town in Gran Bretagna, fu introdotto il Neighbourhood Unit Principle (Principio di Quartiere Modulare). Si trattava di un parametro secondo il quale l'unità minima di urbanizzazione non poteva essere inferiore ai 5.000 abitanti, il minimo per riprodurre in piccolo le caratteristiche medie della generale civiltà urbana. Basata sulla micro-unità famigliare tale unità doveva essere in grado di fornire un numero sufficiente di bambini per una scuola elementare, un numero sufficiente di famiglie acquirenti per un supermercato, per una farmacia, ecc. ecc. Ebbene, già negli anni '50 ci si accorse che i nuovi insediamenti producevano uno speciale tipo di fauna urbana, afflitta da una forma depressiva chiamata new town blues, provocata dal senso di isolamento della famiglia in spazi artificiali che fingevano un urbanesimo inesistente. Una depressione spesso accompagnata da fenomeni irrazionali di ribellione e di distruzione, con uno speciale accanimento contro le strutture comuni (abbiamo esaminato il vandalismo ultra-esasperato di Pruitt-Igoe, ma il fenomeno è tipico, per esempio, anche delle nuove città siberiane a blocchi prefabbricati). Perciò il principio modulare per i quartieri fu modificato e si tentò di fare in modo che la base di riferimento per il micro-modulo non fosse più la famiglia singola ma un gruppo umano più composito, che trovasse una sua identità nell'unità di abitazione. Si teorizzò che era meglio far abitare questi indefiniti gruppi umani non più in orizzontale ma in verticale, "alla Le Corbusier", in sintonia più o meno conscia con la necessità speculativa di accrescere la densità abitativa. Ognuno di tali gruppi avrebbe dovuto essere messo in riferimento a centri più complessi che non un semplice supermercato con appendice di scuola e farmacia. Anche questa soluzione, tuttavia, fu presto abbandonata: gli abitanti dei blocchi, invece di legare con una comunità di centinaia di umani inscatolati, preferivano dirigersi verso le "possibilità di socializzazione" offerte dalle metropoli storiche da cui provenivano e a cui erano abituati. In questo modo, oltre a far fallire i disegni dei sociologi, incrementavano spaventosamente il traffico. Gli spazi comuni rimanevano desolatamente inutilizzati, abbandonati, vandalizzati. Quando non si muovevano sulle autostrade, gli abitanti inebetivano in casa davanti ai televisori, vittime di nuove patologie mentali dai nomi suggestivi.

Falliti anche i progetti di questo tipo, gli architetti del tardo esperimento di Corviale tennero conto delle disfatte precedenti. Perciò realizzarono uno dei tentativi più maturi mai affrontati dall'edilizia sociale in ambito capitalistico. Lungi da noi l'intenzione di fare l'apologia dei mostri cementizi, ma le loro aberrazioni riguardano più i limiti dovuti alla struttura dell'attuale società che il progetto in sé; ed essi contengono in nuce il potenziale necessario per lo scatto nel futuro. Immaginiamo già la veemente critica del democratico irriducibile: non vi bastava la società-fabbrica, adesso teorizzate anche l'abitazione-caserma! Noi siamo dei "pratici", studiamo strutture, cemento, uomini, non idee. È facile vedere che a Corviale o altrove sarebbe immediatamente possibile, in una transizione rivoluzionaria, far tabula rasa di tutte le strutture che caratterizzano la vita di una società tagliata su compartimenti stagni famigliari. I mostri sono già strutture modulari: metamorfosi ben più radicali di quanto possano fare muratori improvvisati o ristrutturazioni speculatrici saranno facilissime. In città costituite da simili strutture rigenerate la popolazione sarà abbastanza concentrata da lasciare libero spazio alla natura e alle altre specie viventi, e nello stesso tempo lo spazio urbano disponibile socialmente sarà enormemente superiore rispetto a quello delle città attuali. Le comunità umane elimineranno così l'isolamento, condurranno vita urbana e renderanno cittadini tutti coloro che facevano parte del contadiname sparso (oggi "solo" tre miliardi di persone sono inurbate).

Appartenere alla comunità umana futura

Come si vede, nonostante la critica necessariamente feroce all'architettura e all'urbanistica borghesi, sarebbe sciocco non riconoscere in esse alcune anticipazioni, se pur frenate e negate, determinate fortemente dal premere di un nuovo ordine sociale. E se esse rimangono uno dei peggiori prodotti dell'ideologia dominante e della produzione per la produzione, tuttavia non possono essere esenti dalle spinte materiali che rafforzano sempre più la base materiale del comunismo.

Tutta l'architettura moderna poggia su una corrente ben definibile, determinata dall'erompere della produzione. I ponti di Eiffel e la sua famosa torre, la reazione estetica agli inutili fronzoli del tardo barocco e alle copie dall'antico, la progettazione (senza troppe teorie) di stabilimenti e capannoni industriali, furono il portato della marcia del Capitale, la quale impose la propria estetica nuova. Il funzionalismo in architettura nacque ben prima del razionalismo dei Gropius e dei Le Corbusier, dell'organicismo dei Wright e degli Aalto: il concetto è parte integrante dei processi industriali, strettamente legati come sono alla tecnologia. Nuove tecniche e nuovi materiali dovevano comportare nuove estetiche. Il funzionalismo, in architettura o altrove, è parente stretto del determinismo (cfr. Politica e costruzione), e sostenne, non senza ragione, che il fatto stesso di fare progetti completi di calcoli e disegni avrebbe comportato la soluzione riguardo allo stile: si sarebbe automaticamente ottenuto, oltre all'utile, l'esteticamente bello. Anche i cultori del moderno industrial design sostengono che l'ergonomia, cioè la funzionalità rispetto alle proporzioni del corpo e alle sue posizioni, produce nello stesso tempo bellezza. Non c'entra l'estetica come ideale: gli antichi architetti greci o romani fissarono canoni estetici dopo che i materiali, le tecniche e l'uso cui erano adibite le loro costruzioni li avevano obbligati a determinate forme. Chiunque faccia altrettanto con i materiali e le tecniche moderne produce "opere d'arte" valide dal punto di vista estetico quanto le antiche. Per questo l'architettura del Novecento, per un secolo intero (e andrà oltre), ha espresso funzionalismo, razionalismo, purismo e tutti quegli "ismi" legati alla produzione capitalistica. Non è l'idea dell'artista a definire la forma, ma il determinismo dei processi reali. Nel 1917 D'Arcy Thompson scrisse un bel trattato in cui la struttura e l'estetica del vivente erano spiegate attraverso i processi deterministici che ne stabilivano le forme, e in un capitolo mette in parallelo le strutture dei vertebrati e le armature architettoniche (cfr. Crescita e forma).

Tutto questo per dire che non basta inventare una forma per avere una struttura urbana felicemente abitabile, così come la forma escogitata non può che risentire delle determinazioni funzionali soggiacenti. Una macchina per abitare, che la disegni o meno Le Corbusier, sarà sempre un riflesso della società che la esprime e che la costruisce. Come s'è visto avrà prima di tutto gli alloggi per la famiglia borghese (anche quella dei proletari è una famiglia a base borghese), avrà garage e superstrade per le automobili private, avrà botteghe e supermercati per le merci, avrà scuola, municipio e polizia come rappresentanti dello Stato, avrà la banca, ecc. ecc.

L'unica volta che si progettarono abitazioni, quartieri e città senza queste caratteristiche, specie senza la millenaria istituzione della famiglia come parametro fondamentale, fu durante la Rivoluzione Russa, ma tutto fu represso dalla controrivoluzione staliniana. Paradossalmente, il ricorso ad un modello di struttura abitativa di tipo comunitario ricompare negli Stati Uniti per motivi o idealistico-mistici o del tutto funzionalistici: si moltiplicano, si sfasciano e si rinnovano le "comuni" di persone che non ce la fanno più a vivere "normalmente", e ne nascono fra i disoccupati o i precari. Specialmente fra questi ultimi, che devono fare più lavori per vivere, si spostano continuamente e quindi non possono pensare a casa e famiglia, stanno prendendo piede tentativi di mettere insieme le risorse (co-housing) con risultati se non comunistici, certamente comunitari. Engels analizzò nei particolari gli esperimenti comunistici americani della sua epoca, sottolineando gli aspetti anti-dissipativi, il forte senso di appartenenza dei membri e il bisogno irriducibile di comunismo da parte dell'uomo.

Ma non è mai stato possibile appartenere ad una comunità umana diversa da quelle che nella storia sono state permesse dai dati di fatto sociali. Nessun nuovo falansterio fourierista, nessuna nuova comunità oweniana, nessuna spinta oggettiva a comuni di fatto, nessuna setta mistica o materialista può spezzare i limiti imposti dalla società alla materiale organizzazione abitativa. Tutti questi tentativi o falliscono o diventano dei surrogati della normalità per la semplice ragione che non sono espressi da una funzione materiale soggiacente diversa da quelle ordinarie del capitalismo. Ci sono state e ci sono delle interessanti utopie che estrosi individui hanno tentato di realizzare, negli Stati Uniti e altrove, ma sono appunto utopie individuali. Non appena si estendono, esse diventano fotocopie di esperimenti più grandi e già visti, alcuni dei quali "pubblici", che abbiamo appena tentato di analizzare cercandone i significati.

Come l'esperienza insegna, ogni comunità artificiale rappresenta una fuga dell'individuo rispetto alla società così com'è; e al suo interno non può esservi senso di appartenenza che nell'ambito dei tentativi di dare soluzione immediata ed egoistica a qualche problema contingente. Certo è già tanto, in società di classe che lungo millenni hanno offerto ben poco rispetto all'armonia dei rapporti fra uomo e uomo. Se escludiamo il comunismo primitivo, all'interno del generale processo rivoluzionario delle società classiste le antiche comunità buddiste, gli esseni, i primi cristiani, le varie esperienze comunistiche eretiche, le recenti esperienze utopistiche, le community di fatto americane, sono tutti episodi singoli reali, che dimostrano quanto il bisogno, certo ancora inconscio, del comunismo sia radicato e insopprimibile. Ognuna di queste esperienze ha espresso forme abitative caratteristiche, riconducibili anche in questo caso a invarianti che passano attraverso la storia senza grandi trasformazioni. La casa della comunità non egoistica ha sempre avuto una sua armonia che gli architetti moderni non possono riprodurre, impediti come sono da una realtà dominante che non concepisce armonie. Noi non siamo affatto "primitivisti", ma non possiamo esimerci dallo studiare a fondo quegli esempi di società antichissime sopravvissute fino ai nostri giorni, che percepiscono sé stesse come parte di un tutto e dove i singoli membri soggiacciono a regole antecedenti ai rapporti di classe (pensiamo ai mozabiti – cui il solito Le Corbusier deve molto per alcuni suoi progetti – ai Dogon, ai Bororo, agli Yanoama dell'Orinoco, ecc.). Ma che cosa impedisce di copiare, oltre alle forme superficiali, anche il profondo contenuto del loro modo di abitare? È davvero solo un problema tecnico, di comodità, di benessere?

Oggi c'è un solo modo per appartenere ad una comunità veramente diversa e rivoluzionaria; esso è poco vistoso, non c'entra con l'architettura e l'urbanistica immediate, ma è pratico ed efficace: mettersi in sintonia con la società futura, lavorare come tutti coloro che stanno già esprimendo questo tentativo nei modi resi possibili oggi (e che rappresentano una community reale ben più vasta dei confini autotracciati da organizzazioni politiche), aderire al partito storico della rivoluzione.

Le forme e i contenuti

Nel sesto capitolo del suo manifesto (Maniera di pensare l'urbanistica), Le Corbusier afferma che per l'uomo e la sua famiglia la casa è un involucro che ha la funzione di stabilire giusti rapporti tra l'ambiente cosmico e i fenomeni biologici umani. Affascinante. Ma New York non è il villaggio cosmico dei Dogon ed è talmente sfavillante di luci elettriche da offuscare la stella Sirio che essi venerano. Ad ogni modo per Le Corbusier gli organismi esterni alla casa sono prolungamenti della casa stessa, in quanto fanno parte della vita di chi la abita. Essi sarebbero di due ordini: materiale (approvvigionamento) e spirituale (scuola, cultura). Forse è per questo che nelle new town i supermercati funzionano benissimo e le scuole sono vandalizzate: il capitalismo ha perso l'anima, bisogna ridargliela. Invano il lettore cercherebbe indicazioni scientifiche (cioè ben piantate nella realtà, sia pure da trasformare) sul come fare. Con termini assolutamente privi di contenuto empirico l'architetto descrive i volumi abitativi unicamente attraverso l'idea che ha di essi: "Pur concepiti come veri e propri strumenti, saranno esempi di vigore, di ricchezza, di bellezza, di splendore. Le zone residenziali edificate secondo questi principii saranno uno spettacolo di chiarezza, di grazia, d'ordine e d'eleganza". Perché mai? Solo perché sgorgano dal cervello del genio architettonico? Il funzionalismo razionale di cui abbiamo parlato va a farsi benedire se nella casa invece dell'uomo vien fatto vivere un suo surrogato ideologico.

Nei "prolungamenti" la fabbrica non c'è, forse non è considerata un organismo della cosmologia urbana. È da un'altra parte, al capitoletto "unità di lavoro". Ci sorge quindi il sospetto che unità d'abitazione e unità di lavoro siano entità separate. Insomma, si copia dagli utopisti solo ciò che fa comodo: mai Owen o Fourier avrebbero separato casa e lavoro, anzi, in essi il vero "prolungamento" della casa è l'unità di produzione. Nei progetti dei grandi architetti modernissimi il luogo della produzione si raggiunge col mezzo di trasporto: non si muove la macchina verso l'uomo, si muove l'uomo verso la macchina. In piccolo si osserva quel che si osserva in grande: miliardi di uomini migrano provvisoriamente ogni giorno – o definitivamente nella loro vita – verso il Capitale. Il lettore che affrontasse il libro citato in cerca di soluzioni vere non ne troverebbe: al loro posto vi è solo una caterva di proposizioni gratuite. Ecco perché la parola "involucro" è così significativa nel passaggio dall'idea al cantiere. Ci viene in mente Lenin: il capitalismo è un involucro che non corrisponde più al suo contenuto e danna gli uomini che potrebbero già benissimo farne a meno.

Ma andiamo con ordine. Abbiamo visto che i santoni dell'architettura ammassano uomini per ottenere spazio, almeno secondo i canoni capitalistici e secondo quel che è permesso dalle leggi del mercato. E abbiamo visto con quali risultati. Ora proviamo a riprendere le nostre cifre e a fare qualche calcolo supplementare sulla base di poche osservazioni preliminari. Ci basta ricorrere al grande Corbu come lo chiamano i francesi, che è la summa di tutti gli altri. Prendiamo al solito il suo modulo-tipo, la casona di Marsiglia (poi riprodotta in altri paesi) che, per sua stessa confessione, non è altro che il provocatorio monumento all'ottusità dei governanti che non l'ascoltavano. Egli riconosce infatti che il modulo da solo non vale niente, e che ha senso soltanto se immerso in un ambiente costellato da tanti moduli simili e da strutture di servizio delle quali abbiamo già parlato.

Il modulo di Marsiglia ha 1.600 abitanti (400 famiglie) e copre un'area di circa 2.800 metri quadrati, quindi 0,6 abitanti per metro quadrato. Dalle indicazioni del Maestro ricaviamo che ognuna delle sue provocatorie "unità di abitazione", ambientata in una città completamente rifatta, cosa che non è mai riuscito ad ottenere come scenario per le sue costruzioni, dovrebbe sorgere su un terreno grande almeno quanto la proiezione dell'alzato intorno al perimetro; nel nostro caso 9 piani più i pilotis, 30 metri intorno a una costruzione, 60 tra una e l'altra (era la proporzione richiesta dall'utopista Fourier per lo spazio fra gli edifici del falansterio). Otteniamo in questo modo 16.000 metri quadrati. Permettiamoci di essere abbondanti rispetto ai minimi previsti dall'idea-progetto originale: vogliamo uno spazio doppio, diciamo almeno 30.000 metri quadri, fatto di verde e infrastrutture, strade, camminamenti, giardini. La densità di ogni modulo scende quindi a 0,05 abitanti per metro quadro. Rapportata a quella da noi presa in esame al principio, abbiamo una densità urbana di 50.000 abitanti per chilometro quadrato al posto dell'attuale media di 20.000.

Una città siffatta potrebbe effettivamente essere ben più verde e più fiorita della più verde accozzaglia di condominii o di baracche o di villette che mediamente si sia mai riusciti a costruire nella realtà capitalistica. Essa permetterebbe di ridislocare sulla griglia virtuale del mondo abitabile le città ad una densità assai minore. Invece di 310.000 ne avremmo 124.000, dislocate ognuna al centro di 403 chilometri quadrati, perciò a una distanza di 20 chilometri invece che i 12,7 della nostra ipotesi di partenza (sulla griglia virtuale italiana gli 8.000 comuni stanno oggi ad una distanza media di 6,1 chilometri!).

Il borghesissimo Corbu avrebbe dunque raggiunto qualche buon risultato rispetto all'urbanistica corrente, se solo non avesse avuto tra i piedi la società borghese. Ma, come molti utopisti, credeva o diceva di credere che fosse una questione di cattiva amministrazione, quindi riformabile in buona amministrazione. Spazzata via la società borghese, la nuova società si troverà tra i piedi milioni di case à la Corbu e dovrà decidere cosa farne. Solo allora esse perderanno il loro carattere di rapporto sociale e saranno ricondotte a oggetti ri-formabili; allora il verticalismo, con l'ambiente che l'aveva generato, sarà un mero ricordo storico. Anche se le strutture urbane ricorderanno ancora il rapporto sociale che le avevano generate, esse si presenteranno non come prodotti di individui ma come sintesi di un secolo in bilico fra conservazione e anticipazione, fra contenuti esplosivi e involucri che li incatenano. Un secolo ibrido che ha guidato la mano ai progettisti dei tre mostri presi in esame e di altre migliaia sparsi per il mondo. Stabilito tutto ciò che precede, e spersonalizzate generazioni di architetti, possiamo dedicarci ad una specie di plaidoyer pour Corbu, dato che abbiamo già stabilito che per noi il buon Jeanneret è nient'altro che una metafora. Spezzeremo quindi una lancia a favore del funzionalismo e del razionalismo, cioè degli unici presupposti materialistici e deterministici dell'architettura moderna. Ciò sarà utile per mostrare come le stesse forme possano essere guardate da punti di vista completamente diversi e come i contenuti possano dialetticamente passare dalla negazione dell'umanità alla sua organica affermazione.

Le Corbusier Unità d'abitazione di
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piantina di un alloggio-tipoFig. 10. Le Corbusier Unità d'abitazione di Marsiglia e piantina di un alloggio-tipo.

Per non inventare idealisticamente nulla

L'alloggio-tipo dell'unità di Marsiglia (fig. 10) ha una superficie di 75 metri quadri "calpestabili", ha due servizi, è terribilmente lungo e stretto (le due camere da letto singole sono larghe solo 1 metro e 70), è disposto su due piani collegati da una scaletta ed è previsto per una famiglia di quattro persone. Come si vede nella piantina, riempito il cosmico involucro di tutti gli oggetti che il mercato impone a una famiglia di quattro persone, resta ben poco per spaziare. Un terzo dell'alloggio se ne va per cucina e tinello; due terzi sono dedicati alle tre camere da letto e ai servizi. Stop, non c'è altro. Bisogna uscire di casa. Ma per andare dove? L'alternativa è fra l'andare a lavorare, pestarsi i piedi o camminare senza meta fra i prati sormontati dalle artistiche parkway.

Per non farla troppo lunga sui particolari, ipotizziamo ora una società ancora basata sulla famiglia, la quale abiterà ancora nello stesso geniale e ammiratissimo (dagli architetti, non dagli abitanti) alloggio. Questo perché in una fase di transizione anche la più determinata dittatura proletaria non potrà modificare di colpo questa macabra istituzione che produce depressione e massacri, né tantomeno imporne l'abolizione per decreto. D'altra parte nemmeno gli apprezzati (in senso stretto e lato) volumi del razionalismo funzionalista e purista potranno essere demoliti su due piedi. Immaginiamo però che in questa società di passaggio sia già possibile per molti incominciare a vivere come stanno vivendo oggi, ogni giorno, alcune decine di milioni di persone. Le quali, in numero variabile a seconda del criterio di raggruppamento, vivono in luoghi che vanno dalle vere e proprie comunità comunistiche ad altre forme abitative, come certi particolari Common Interest development, o alberghi, residence, pensioni, villaggi turistici, navi da crociera, fino alle case su ruote parcheggiate in appositi park più o meno giardinati e attrezzati con servizi comuni. Un modo di vivere che negli Stati Uniti è assai collaudato e gradito, dato che permette sia di utilizzare largamente spazi e servizi comuni sia di coltivare la propria egoistica privacy. Da notare che Cernycevskij nel suo Che fare? del 1859 descrive una coppia solo temporaneamente monogamica e quando essa "mette su casa" progetta per sé spazi indipendenti per uomo e donna, non tanto per isolarsi quanto per rispetto reciproco. Invece Le Corbusier nel 1952 praticamente ignora il problema, visto che tra l'altro adotta la promiscua camera nuziale con letto bipiazza, residuo neppure dell'antichità o della nobiltà feudale ma della schiavitù antica e della minuta società contadina più recente.

Quel che comunque immediatamente ricaviamo per confronto è che nell'edilizia residenziale, razionalista o meno, lo spazio occupato per dotazioni private è sproporzionatamente superiore a quello occupato da quelle comuni. Senza contare che oggi la maggior parte delle strutture collettive è utilizzata dagli individui o famiglie solo temporaneamente, quindi si aggiunge a quelle private. La dissipazione del consumo "di famiglia" è infinitamente superiore a quella del consumo comunitario. Qui ovviamente non stiamo teorizzando nulla. Ci limitiamo a osservare, come fa Engels a proposito delle colonie comunistiche americane, il dato di fatto che esiste già un'utilizzazione comunitaria della casa, che è assai generalizzata e che non è quella di Letchworth, di Cumbernauld, di Marsiglia, di Pruitt-Igoe o di Corviale. Se Le Corbusier avesse potuto e voluto fare qualcosa di veramente rivoluzionario avrebbe almeno disegnato, come avevano tentato di fare gli architetti costruttivisti russi, una machine à vivre, non à habiter. "Abitare" ha radice in habere, tenere, possedere. Milioni di americani, senza teorizzare proprio nulla, schiacciati dall'angoscia del vivere borghese, cercano almeno di mettere in comune alcune risorse. L'unità di abitazione di Marsiglia sarebbe stata veramente una unità organica e non un cumulo di scatole stagne per famiglie contadinesche urbanizzate se si fossero previste zone private e zone pubbliche nella casa, e non nelle parkway sopraelevate, nei passeggi cementizi e nei giardini fasulli. Cioè se si fosse riusciti a non separare casa e città, anzi, se si fosse superato il vecchio concetto di casa. Ma non esiste un mercato per le… non case.

Non è la firma dell'architetto famoso che fa la differenza fra il condominio dei suburbi e i moduli della città radiosa, ma chi vi abita e il suo modo di abitare. È il contenuto che fa la casa, non l'involucro. Va da sé che oggi una struttura abitativa che preveda spazi privati uniti a strutture comuni come ristorante, lavanderia, biblioteca, ecc. ecc. non è neppure considerata "casa" ma residence, albergo o un qualcosa di anormale.

Salterà fuori qualcuno a dire che siamo per la società-albergo e che vogliamo obbligare gli uomini a mangiare in mensa o mettersi in coda per lavarsi i calzini? Non c'è rimedio all'esistenza dei fessi, quindi andiamo avanti. Lo faremo provando a sfregiare l'opera d'arte di Corbu, cioè ricavando nello spazio tra i pilotis che sostengono il gran parallelepipedo almeno 10.000 metri cubi di strutture comuni (pari a una trentina di grossi alloggi). Queste prenderanno il posto di cementosi marciapiedi che non servono a nessuno e sui quali, non piovendovi mai, si accumula solo polvere e sporcizia. Risparmieremo pure sul riscaldamento. Se non bastano i metri quadri coperti, recupereremo spazio demolendo qualche condominio non griffato dei dintorni. Uniremo così il verticale all'orizzontale come nelle ultime new town e a Corviale, ingraziandoci qualche confraternita di architetti tendenti al "sociale" spinto.

In questo modo realizzeremo alcune strutture dedicate alla soddisfazione comune di bisogni che prima erano chiusi in camera. Prima di tutto ci sarà una "mensa" dove, se anche si mangiasse come in una disprezzata mensa aziendale media con cucina fresca, si mangerebbe già meglio che nel 90% delle case di famiglia. Ma sarà necessariamente un'altra cosa. Sarà una mensa col significato antico del termine, tavola imbandita e piena di cibo, per la quale non cucineranno né schiavi salariati, né casalinghe coatte, né donne lavoratrici che non hanno tempo di badare a finezze gastronomiche e rifilano ai congiunti le immonde schifezze reclamizzate in televisione, ma uomini liberi, come in qualsiasi altro luogo di produzione. Avremo così risparmiato 400 cucine intese sia come spazio che come mobili, 400 frigoriferi, 400 lavastoviglie, 400 frullatutto, 400 shopping alimentari al giorno, 400 tinelli con relative cianfrusaglie, e decine di migliaia di piccoli gesti domestici quotidiani, od oggetti che languono inutilizzati nei cassetti, acquistatati solo per pulsione consumistica quanto masochistica.

Ci sarà una biblioteca (cineteca, musicoteca, data base, cybercafé, ludoteca) che eliminerà 400 pseudobiblioteche private, 400 computer di spaventosa potenza usati per lo più solo per chattering e giochini, 400 impianti stereo e decine di migliaia di dischi e film che il privato possiede senza però possedere tre vite per goderseli. Ci sarà un cinema con megaschermo digitale, un teatro, un auditorium e tutto quello che vorremo realizzare, utilizzando l'energia risparmiata rispetto alla dissipazione, moltiplicata per 400, di una media famigliola di oggi. E invece di abitare allo stretto in alloggi pieni di carabattole private, nello stesso spazio di prima abiteremo alla grande, anzi, dimoreremo, lasciando libertà all'aria e alla luce.

Installazioni comuni? E la privacy? Nessuno ha da ridire, per esempio, quando si installa una super-antenna comune per 400 televisori, risparmiando e ottenendo un risultato migliore. Nessuno trova strano ormai mettere in comune risorse per le assicurazioni, avere in comune una rete elettrica invece di andare privatamente in drogheria a comprare il petrolio da illuminazione, attingere l'acqua da tubature comuni invece che andarla a prendere nel pozzo privato, ecc. Insistere sull'effetto mensa, sulla perdita della privacy, sulla difesa della famiglia borghese, sull'idea che l'uomo sarebbe fatto per spazi privati e non comuni, ecc. non solo è assurdamente individualistico ed egoistico, ma anche da miserabili. È il proletario che viene assuefatto alla più retriva omologazione, portato alla difesa di una condizione ormai utile solo al consumo di massa. Il borghese se ne frega, abita in quartieri attrezzati, se ne va all'albergo e al ristorante, mangia benissimo bevendo vino buono con i piatti giusti, mentre i proletari si piazzano davanti alla televisione, dopo aver mandato giù robaccia industriale e trincato liquidi innominabili. Mettetevi una volta in coda alla cassa di un supermercato e analizzate il contenuto dei carrelli.

Si potrebbe dire: ma il borghese ha i soldi. Giusto. Però 1.600 proletari, se non pensano di mettere su una fabbrica o fare speculazione finanziaria internazionale ma solo di vivere bene in una comunità di uomini e in un ambiente decente, potrebbero mettere insieme una bella quantità di energia. Come fa notare Engels, in proporzione al "reddito" spende molto meno il borghese che il proletario, al quale l'intera società porta via la pelle. Tutto il valore scaturisce da questo scorticamento: e quando il capitalista paga il proprietario dell'albergo di lusso passa a quest'ultimo plusvalore che proviene dall'operaio; quando l'operaio paga l'affitto al proprietario, gli passa una parte della propria vita dopo aver già prodotto plusvalore per il capitalista. Dal punto di vista della nostra ricerca sulla dimora dell'uomo nella prospettiva del programma immediato, cioè della fase di transizione che ogni rivoluzione conosce, la casa ci interessa nella sua struttura, nelle sue funzioni. Ma se la funzione dovesse rimanere quella di racchiudere famiglie borghesi sarebbe inutile ogni discorso in prospettiva, tanto varrebbe tenerci le case che ci sono adesso e nessuno si lamenti. In quest'ottica lasciamo l'involucro a Le Corbusier e dedichiamoci al contenuto, che non sarà più una famiglia borghese. E siccome non siamo utopisti, osserviamo cosa sta maturando nella dinamica del capitalismo, l'unico "movimento" demolitore oggi esistente, con buona pace di tutti i movimentisti.

Fra le migliaia di esempi disponibili e altrettanto significativi ne prendiamo tre: quello di un residence per gli ospiti di una grande industria, quello di un medio albergo di concezione moderna e quello di un grandissimo albergo di lusso americano. Si tratta di tre progetti realizzati fra gli anni '60 e '70, dovuti ad architetti famosi. In essi sono presenti spazi privati e comuni. A differenti gradi, con minime modifiche, tutti gli edifici potrebbero già rispondere alle esigenze di una comunità, mentre oggi ovviamente aggregano degli insiemi molecolari di sconosciuti e non insiemi che inducono nei loro membri un senso organico di appartenenza, nell'ambito di un complesso più grande e armonico che è l'intera specie. Nonostante tutto, se riusciamo a spogliarci dell'apparato simbolico legato a questa società, l'impressione che ci fanno queste strutture è quella di un possibile utilizzo per ben altri fini che quelli attuali.

Questa società, quindi, produce più strutture abitative pratiche, immediatamente utilizzabili dai pionieri della città di domani, di quanto sembri a prima vista. Molto, ma molto più numerose delle grandi opere pseudo-rivoluzionarie dell'edilizia pubblica. Si tratta di banalissime strutture alberghiere, ma, secondo lo stesso principio funzionale invocato dagli architetti del '900, rivelano ciò per cui sono fatti: per contenere uomini che, contingentemente o no, fanno a meno della famiglia e dell'abbrutente attività domestica. Prima di cedere a un istintivo moto di rifiuto, dovuto all'abitudine millenaria, ognuno si chieda quanti abitanti risiedono ogni giorno nel mondo in analoghe strutture di abitazione collettiva, comprendendo i conventi, i Grand Hotel e i villaggi turistici. Dai dati di un'organizzazione turistica internazionale ricaviamo che nel mondo vi sono 60.000 alberghi di lusso con 12 milioni di presenze giornaliere. Vuol dire che, comprendendo la totalità delle varie strutture collettive, diverse decine di milioni di uomini risiedono contemporaneamente in esse.

Il primo edificio che abbiamo preso in considerazione è una costruzione a semicerchio, integrata nel terreno declinante, con un prato e un camminamento pedonale al posto del tetto. Stretti alloggi disposti radialmente, sono "serviti" da un anello stradale e pedonale ricavato sotto la collina e le parti comuni sono ridotte all'essenziale, in un insieme spartano. Gli architetti (Gabetti e Isola) hanno così ottenuto un'orizzontalità pura, lo spazio interno ed esterno sono compenetrati al massimo e la forma non ricorda per nulla una tradizionale casa d'abitazione (fig. 11). Anche in questo caso vale ciò che s'è detto per l'unità marsigliese: eliminare i troppi spazi individuali e ampliare quelli comuni per ottenere senza sforzo una dimora collettiva di qualità superiore rispetto ai soliti casermoni è possibile.

Il secondo edificio è molto più complesso. Affine ad altri con strutture a vista (per esempio, il Beaubourg), anticipa di molti anni lo spazio disgregato di certi progetti pubblici attuali. Ha un nucleo centrale dedicato ad attività comuni che è immediatamente assimilabile alla nostra immaginaria "ristrutturazione" marsigliese. Intorno ad esso i progettisti (Cappai e Mainardi) hanno disposto, con tecnica più industriale che di edilizia privata e con largo uso di acciaio, una serie di moduli d'abitazione prefabbricati in materiali misti. Se prescindiamo dall'uso cui è adibito oggi, l'edificio ci mostra, così com'è, un possibile esempio di casa futura. È un vero superamento del solito parallelepipedo, del solito condominio e di tutte le unità verticaliste finora considerate dato che, nonostante i quattro piani fuori terra, mostra una struttura decisamente orizzontale. Il risultato funzionale ed estetico, anche in questo caso, è di compenetrazione degli spazi, e prefigura un utilizzo meno banale di quello cui è adibito. (fig. 12).

Struttura abitativa orizzontalistaFig. 11. Struttura abitativa orizzontalista integrata nella collina.
Unità residenziale Fig. 12. Unità residenziale (particolare).
Atrio di un albergo di lussoFig. 13. Atrio di un albergo di lusso
con ballatoi e giardini pensili.

Il terzo (di John Portman) è, all'opposto, una costruzione del tutto verticalista, con una ventina di piani la cui particolarità è un immenso atrio, una corte-giardino interna coperta, con aerei percorsi sovrapposti da cui sporgono scenografici giardini pensili e ascensori a vista. Nel complesso ci sono 800 alloggiamenti per circa 3.000 persone, su una superficie dello stesso ordine di grandezza di quella marsigliese. La ricerca degli effetti scenografici è decisamente american-kitsch, ma quel che ci interessa qui è la struttura. Essendo un albergo di lusso progettato per congressi ecc., i servizi comuni abbondano. Ci sono per esempio 3 ristoranti diversificati e ben due ettari di spazio polifunzionale coperto, vale a dire tecnicamente attrezzato per ospitare indifferentemente congressi, concerti, festival, esposizioni, ecc. Se non fosse inserito in ambiente urbano tradizionale, farebbe la felicità del grande insardinatore Corbu, dato che supera ampiamente i parametri del suo manifesto verticalista: molte più persone sono raccolte in poco spazio, pur avendone ciascuna molto di più a disposizione. Il grande sviluppo in altezza permetterebbe come non mai di liberare l'area circostante per i celebri radiosi giardini solcati dalle parkway (fig. 13).

D'accordo, sono capitalistici residence e alberghi. E allora? Erano così gli alberghi tradizionali? No, non erano così. Gli edifici d'abitazione per uso "pubblico" sono cambiati ben più delle case. E non abbiamo forse detto che quando la funzione disegna la struttura il risultato è valido per ciò che quest'ultima esprime rispetto al contenuto? Il fatto è che ci interessa un invariante essenziale per poter parlare di casa nell'ambito di un discorso sulla società futura: i tre esempi citati, come del resto la nostra ipotetica ristrutturazione marsigliese, hanno lo stesso contenuto delle prime forme urbane comunistiche. Adesso, poggiando sul nostro ormai noto binomio invarianza-trasformazione, abbiamo qualche elemento in più per parlare anche della casa di domani senza tema di scadere in modelli utopici scaturiti dalla fantasia del nostro cervello individuale.

Stabilità sociale e mutazione

Siamo partiti da una critica ai fondamenti dell'architettura moderna e abbiamo finito per trovare in essa delle espressioni che vanno al di là della società presente. Più dove il progettista pensava assolutamente ad altro che non dove ha cercato di raggiungere coscientemente un risultato. Alla borghesia non disturba affatto che ogni tanto scaturiscano alcune utopie, ma il loro uso capitalistico rimane agli antipodi rispetto a ciò che un comunista vi può a volte vedere. Anche nei casi estremi, quando qualche architetto un po' fuori di testa disegna ambienti "collettivistici" abbandonandosi alla libertà offerta dai materiali moderni, il business non è disturbato. Anzi, la stabilità del sistema è aumentata da una moderata capacità di innovazione, come notava il gattopardesco principe Salina. Purché vi sia un ritorno all'investimento. Purché la "spesa pubblica" garantisca la solita "cuccagna privata".

Prima verrà la catastrofe politica – e verrà – poi la trasformazione e la nascita di effettive forme nuove. In molti immaginano, con deleteria pigrizia mentale, una rivoluzione che, dopo aver portato il proletariato al potere (e non ci dicono con quali strategie, tattiche e strumenti ciò avverrà), avanzerà a suon di decreti. Ma, se la realtà sociale smentirà duramente chi crede di poter procedere a quel modo, la realtà specificamente urbanistica sarà ancor più spietata. È difficile parlare di "programma immediato" quando la materia di cui si deve trattare è fatta di pietra, mattoni, cemento armato, acciaio, vetro; quando ha volumi immensi, è sparsa su tutto il pianeta e durerà per decenni. È oltremodo difficile parlarne quando, per converso, miliardi di persone hanno il problema di abitare in qualsiasi modo decente. Ed è addirittura impossibile trattare in modo "immediato" di architettura e urbanistica, "prendere provvedimenti", quando l'umanità non ha ancora superato lo stadio della famiglia monogamica patriarcale, oltretutto nello stadio della sua decadenza e della sua inutilità totale per la specie. La Russia insegna: il prevalere del passato portò alla santificazione della famiglia, della patria e del lavoro; milioni di abitazioni furono costruite, a parte le tecniche, con criteri identici a quelli di prima. Perciò l'indagine sulla casa futura, il vestire i panni di materialistici "esploratori nel domani" deve partire da solide basi materiali che ci diano una dimostrazione pratica di come una parte dell'umanità incomincerà ad abitare da subito, mentre sarà in corso la trasformazione del mondo intero. Quale parte? Si incaricherà la rivoluzione stessa di evidenziarla: nella marcia verso una società senza classi, senza Stato e senza Partito, quest'ultimo si andrà trasformando in "un organo che non lotta contro altri partiti ma che svolge la difesa della specie umana" (cfr. Tesi di Napoli), e mentre prima coinvolgeva necessariamente solo la parte avanzata dell'umanità, al di là delle classi, ora coinvolgerà milioni di uomini nell'anticipazione di forme future.

Può sembrare paradossale, ma, come stiamo constatando nel sistematico lavoro quotidiano di ricerca, ci aiuta più il passato comunistico dell'umanità unito a qualche anticipazione attuale che non uno sforzo di immaginazione per cercare di sapere "come sarà" la casa di domani.

Rimandiamo a prossimi articoli uno studio dettagliato sulla transizione dal comunismo primitivo alle società classiste, ma già abbiamo una mole notevole di materiale sull'archeologia delle prime forme urbane. L'articolo su Caral, pubblicato in questo stesso numero, ci descrive una comunità protostorica peruviana organizzata ancora sulla base dei legami di sangue, i cui i nuclei fondanti si raggruppano in una unità più vasta e costruiscono l'ambiente dove vivere secondo un progetto unitario, fornendosi di strutture comuni e dando vita ad una "economia" basata sull'utilizzo comune dell'energia sociale. Altre aree del mondo hanno rivelato strutture di transizione molto più antiche: in Anatolia, in Mesopotamia, in Egitto, in Palestina, nella Valle dell'Indo, gli archeologi hanno portato alla luce luoghi abitati che si collocano in una fase di passaggio fra il villaggio preistorico e la città.

L'analisi di queste strutture di transizione è importantissima per facilitare l'abbandono di troppi luoghi comuni che infestano il cervello dei "civilizzati", come diceva con disprezzo Fourier. Luoghi comuni che paradossalmente troviamo soprattutto in coloro che scavano rivelando le antiche forme, studiano i reperti con mezzi sofisticatissimi e avrebbero il privilegio di scrivere la storia non su ciò che quelle popolazioni dicevano di sé stesse, dato che erano senza scrittura, ma sulla base di fatti, oggetti, planimetrie, stratigrafie, ecc. Il loro pregiudizio sull'immutabilità della presente forma sociale fa sì che non sappiano dirci praticamente nulla sul significato della disposizione dei locali, se non che un ambiente dove c'è traccia di fuoco e di avanzi di cibo era una cucina, che una grande costruzione complessa era il "palazzo" di un "re" e che un'altra parimenti grande ma non abitativa doveva essere il "tempio" per una qualche "religione".

Ora noi faremo un esperimento: descriveremo alcune caratteristiche strutture abitative proto-urbane chiaramente in fase di transizione dal comunismo primitivo alle prime società di classe. Sovrapporremo poi ad esse alcune delle realizzazioni dell'architettura moderna tenendo presente il deterministico principio di funzionalità di cui abbiamo parlato. In ultimo cercheremo di ricavare dal tutto un "progetto" di massima, che in questo modo si allontanerà il più possibile dall'utopia avvicinandosi il più possibile all'anticipazione.

La dimora prima delle classi

Per acquisire slancio verso il domani, ricolleghiamoci dunque all'epoca pre-classista. Nel passaggio dal nomadismo alla vita stanziale, dalla caccia all'agricoltura, l'uomo cambia ovviamente anche il modo di abitare. Recenti scoperte in India portano all'VIII millennio a.C., forse ancor più indietro, la fondazione delle prime strutture che anticipano la città propriamente detta. Di queste organizzazioni sociali non si sa nulla, ma esse compaiono indipendentemente anche in Cina, nelle Americhe, in Medio Oriente, con caratteristiche analoghe, segno che le determinazioni materiali, cioè, come abbiamo detto, "funzionali", sono fortissime. Tra le analogie c'è la presenza ovunque di una spiccata vita comunitaria. Recentemente ad Arslantepe, in Turchia, è stato scavato, tra gli altri, un edificio più vecchio di parecchi secoli rispetto a quella che si credeva la più antica città, Uruk. Un salone di questo edificio, affrescato e quindi ritenuto importante, aveva il pavimento disseminato da centinaia di ciotole in ogni posizione, mentre in stanze attigue altre centinaia erano ordinatamente impilate capovolte, come se si fosse trattato di una mensa comune. L'obbrobriosa mensa. Quante cucine da famigliola molecolare risparmiavano gli "utenti" del salone di Arslantepe? Centinaia, sembra. E conseguenti carrettate di legname da ardere, lavoro di donne, abbrutimento domestico. Erano incivili? Comunque non erano gli unici: non vi sono dubbi sul fatto che anche nelle civiltà vallinda, cretese, egizia, mesopotamica, vi fossero granai, magazzini, canali di scolo, piscine, servizi collettivi e forme di registrazione dei movimenti di persone e materiali all'interno della comunità. Più difficile rilevare dai resti delle case d'abitazione il tipo di società che le ha costruite. Ma è ovunque evidente che anche la casa più individualista era più comunitaria dei mostri pensati dall'architetto moderno e prima descritti.

Nell'urbanistica proto-storica c'è spesso commistione fra casa d'abitazione ed edificio cerimoniale o sociale. A Catal Huyuk, una proto-città anatolica del tardo neolitico, abitazione, tempio e necropoli erano la stessa cosa (fig. 14). Quando in altri siti la distinzione compare, risalta la sproporzione enorme fra le dimensioni e le tecniche di costruzione degli spazi comuni e di quelli privati. La casa, al contrario di quanto succederà nelle civiltà classiche, era certamente un luogo di rifugio, ma secondario rispetto al resto dei luoghi in cui si manifestava il vivere quotidiano in rapporto con la comunità. Anche dove si sviluppavano imponenti distese di quartieri, come nelle città della Valle dell'Indo, è ancora leggibile la loro dipendenza da un centro redistributivo, non classista, in grado non solo di progettare le case su una griglia fornita di canalizzazioni per l'acqua potabile e di scolo, ma di inserirle in un sistema di produzione, rifornimento e godimento dei beni (fig. 15). Nelle orizzontali città vallinde si stima vi fosse una densità di 400 abitanti per ettaro, 40.000 per chilometro quadro. A Uruk vi erano 200 abitanti per ettaro (cfr. Modelsky). Sono le densità di Londra e Parigi: Corbu avrebbe avuto qualche problema nel progettar loro una casa-involucro dove trovare "totale silenzio e isolamento". Il fatto è che non teorizzavano una casa, se la costruivano, l'abitavano e la vivevano come parte di quel tutto comune che non era un aggregato di scatole separate ma un vero e proprio sovra-organismo.

Catal Huyuk Abitazioni neoliticheFig. 14. Catal Huyuk, Turchia. Abitazioni neolitiche del VI millennio a.C.
Mohenjo DaroFig. 15. Vista aerea di Mohenjo Daro, abitazioni e strutture comuni.

Ciò si osserva agevolmente a Creta dove, nel periodo minoico, prima che i Micenei portassero costumi greci, l'abitazione faceva parte di un tutto organico col tempio. Produzione e distribuzione non vi erano separate, come dimostrano le tavolette e i sigilli di provenienza unica trovati in luoghi differenti. E anche la necropoli era costituita da una grande sepoltura comune. La comunità minoica ruotava intorno ai cosiddetti palazzi, creduti per molto tempo abitazioni dei re, affini a quelli del mito greco. Con molta probabilità erano invece complessi cerimoniali e abitativi dove il sacro, l'autorità centrale e la produzione-distribuzione si fondevano con le esigenze della comunità. Tant'è vero che tale compito è "funzionalmente" riprodotto anche nella planimetria, che ci mostra vasti edifici dai volumi assai movimentati, con saloni, corridoi, magazzini, scale, laboratori, terrazze, portici, che sono compenetrati da aree pubbliche come vasti spazi lastricati, teatri (o luoghi per assemblee), giardini pensili. E dal tutto si snodano scenografici camminamenti cerimoniali e strade verso costruzioni che riprendono gli stessi moduli in scala ridotta e coinvolgono la campagna. Qui non resterà che copiare, tanto i volumi giocano con la luce e l'aria, protendendosi armonicamente verso gli spazi coltivati e i boschi, lasciando che la natura trovi continuità fra il costruito e viceversa (fig. 16-17).

Festo CretaFig. 16. Festo, Creta. Pianta delle strutture minoiche.
Cnosso CretaFig. 17. Cnosso, Creta. Ricostruzione al computer del complesso miceneo.

Le caratteristiche di alcune comunità sudamericane come quella di Chan Chan, in Perù, scomparse prima dell'arrivo dei conquistadores e quindi completamente sconosciute, sono un vero rompicapo per gli archeologi. La funzione dei grandi blocchi-quartiere e dei vari edifici al loro interno è del tutto indecifrabile, a parte i ben riconoscibili magazzini comuni, le cisterne e i laboratori artigiani. La loro planimetria non dice nulla alla nostra mentalità, non si capisce quali siano le case d'abitazione, quali gli edifici "amministrativi" e quali quelli religiosi. Non si capisce neppure il disegno dell'intera città. Il cosiddetto "quartiere delle attività domestiche" nel blocco più vasto (444 metri per 303) è un complesso dove sono state trovate stoviglie e resti di cibo e cucina, ma non certo per uso privato, dato che è lungo 60 metri! C'è un quartiere "popolare" chiamato così dagli archeologi perché fatto di piccole case, ma non è possibile individuarne un altro che mostri caratteristiche abitative. La totalità delle costruzioni e degli spazi sembra progettata per far da scenografia a una qualche attività delle persone che vi si muovevano, ma non si sa quale (fig. 18). Tutto è gigantesco, ma vi sono centinaia di piccole stanze, tutte uguali, con una sola porta e disposte in file regolari. Le ricche decorazioni sembrano non avere "funzionalità" se non rispetto ad avvenimenti e comportamenti piuttosto che rispetto a "cose". Gropius e Mies van der Rohe sarebbero inorriditi: decorazioni! E per di più non razionali! Uno schiaffo alla purezza delle loro pareti lisce e vuote, dov'è ammesso solo il bianco, il nero e il grigio.

Chan ChanFig. 18. Uno dei "quartieri" di Chan Chan.

Comprendiamo molto meglio le abitazioni delle comunità che, formatesi in periodi in cui esiste il pieno dominio di classe, si sono ritirate dalla società e hanno intrapreso un percorso all'indietro, ricercando i tratti comunistici perduti. È il caso delle prime comunità buddiste, dei primi cristiani, degli eretici medioevali o delle comunità ebraiche come gli Esseni o la loro ramificazione chiamata "Yahad" che significa "in comune". Soffermiamoci su quest'ultimo gruppo. Sorto in seguito al "Patto di Qumran" (180 a.C.) e insediatasi nella località dallo stesso nome vicino al Mar Morto, ci ha lasciato, oltre ai noti manoscritti, gli interessantissimi resti del suo accampamento, poi diventato un grande ed esteso complesso in pietra che dichiara in pieno, "funzionalmente", la sua caratteristica di sede per una società comunistica, benché ristretta a poche centinaia di persone. Per quanto rigidamente organizzata rispetto all'ideologia e alla disciplina, la comunità di Qumran viveva nell'assoluta uguaglianza e si era costruita un'abitazione comune che la rifletteva. Il complesso gravitava intorno all'acqua, preziosa nel deserto, raccolta in cisterne e condotta tramite canalizzazioni attraverso gli ambienti comuni. Tali erano, ai piani terreni, la cucina, la dispensa, il salone per le assemblee e i banchetti, la sala di lettura e scrittura, la zona dei laboratori, gli orti. Era prevista una netta separazione fra le attività comuni e quelle della famiglia. Uomini e donne vivevano in comune, ma non potevano fondare una famiglia prima di aver compiuto vent'anni e dovevano scioglierla dopo i trenta. I figli erano allevati dalla comunità. Degli alloggiamenti, probabilmente al piano superiore, non è rimasto nulla, ma dalla tipologia generale si evince che non esistevano ambienti individuali o "famigliari". Qui la casa comprende dunque la vita stessa, la produzione, la conoscenza e la sua trasmissione sia nel senso della memoria scritta che nel senso della continuità biologica, dato che non si trattava di una comunità monastica sterile (fig. 19).

QumranFig. 19. Pianta della comunità di Qumran.

In tutti i casi elencati è persino difficile parlare di "casa". Quando l'abitazione individuale si fonde con le altre e con ciò che la circonda, l'abitare e il lavorare diventano la stessa cosa del vivere, e meglio sarebbe parlare di habitat. Specie nel complesso di Qumran, da noi scelto perché emblematico ma riferibile anche ad altre realtà, si verifica in pieno ciò che molti popoli legati al ciclo naturale sanno benissimo e che nel Rinascimento Leon Battista Alberti riassume efficacemente: "Se è vero il detto dei filosofi, che la città è come una grande casa... la casa a sua volta è una piccola città… E come nell’organismo animale... ogni membro si accorda con gli altri, così nell’edificio ogni parte deve accordare con le altre".

In pieno rispetto della tradizione ebraica, la comunità di Qumran aveva tratto una cosmologia specifica dai testi antichi e si era data un calendario solare, molto più preciso di quello lunare in uso a Gerusalemme. A Qumran la "casa" è una piccola città, oppure la città è una grande casa. La sua planimetria è viva, come la radiografia di un organismo vivente, come il "palazzo" minoico o il reticolo vallindo, come tutti gli altri esempi di casa-città o città-casa che abbiamo provato a descrivere. Di nuovo: come nessuna "città radiosa" capitalistica potrebbe mai e poi mai essere.

Siccome le ideologie del ritorno al passato sono sempre di matrice reazionaria, ricorrere all'apologia del comunismo primitivo e delle sue espressioni ci serve solo per compiere un balzo al comunismo sviluppato attraverso le fasi intermedie, come abbiamo anticipato. Il comunismo sviluppato è il prodotto specifico della civiltà urbana capitalistica e si esprime al massimo quando essa è ultramatura. L'architetto del futuro non disegnerà "case" copiando da società scomparse, ma organismi-città modernissimi. Come nella transizione dal comunismo primitivo, come nella concezione cosmica dei Dogon e come ricorda Leon Battista Alberti, ci sarà un contatto fra l'organismo biologico dell'uomo e il suo ambiente, ma con la tecnica, i materiali e la socialità di domani.

Abbiamo visto che la densità abitativa degli antichissimi centri era spesso molto alta, anche se si sviluppavano in orizzontale e in essi c'era spazio per tutti. Non è una contraddizione: il segreto di un'alta densità accompagnata a vasti spazi fruibili stava nella minimizzazione dello spazio individuale e nell'ampliamento di quello collettivo. Solo in tal modo era possibile proiettare la vita quotidiana sullo spazio esterno alla "casa". L'intera città era la vera casa dei suoi abitanti o, se vogliamo, la casa era la città: Omero riporta che vi erano 50 "fratelli", 12 "sorelle", rispettivi genitori e figli, più molte altre persone, sotto il tetto della "casa di Priamo", cioè centinaia di persone, ma sappiamo che le città pre-classiche erano raggruppamenti di tribù e che "casa" significava stirpe, ghenos, tribù appunto, in cui tutti erano "fratelli" perché respiravano il fumo dello stesso focolare, bevevano lo stesso latte e mangiavano lo stesso pane. Ecco perché i greci antichi chiamavano indifferentemente "città" Troia cinta di mura, Itaca che è un'isola, Pilo che è un "palazzo" e le innumerevoli "case" sparse.

Se noi dovessimo riportare queste caratteristiche nella società giunta ad un alto grado di socializzazione del lavoro tramite la scienza e la tecnologia, dovremmo sostituire non solo i materiali, le tecniche e il modo di convivere tra i sessi, ma anche il modo in cui la popolazione nel suo insieme si proietta verso lo spazio "esterno". Perciò vedremmo trasformarsi ogni categoria negata di questa società (no famiglia, no isolamento, no consumismo, no dissipazione) in affermazione di categorie inerenti alla società nuova: nuovo rapporto uomo-donna, vita sociale armonica, soddisfazione di bisogni umani, alto rendimento del metabolismo sociale.

La dimora di domani

Ora che abbiamo compiuto una rapida escursione attraverso i problemi reali già posti dalla dinamica del divenire, non è difficile tratteggiare le conseguenze della transizione rivoluzionaria alla società futura dopo la caduta del mondo borghese. Dalla materia trattata fin qui abbiamo visto scaturire diverse contraddizioni entro le categorie dello stesso mondo borghese e fra queste e la società futura. Ma abbiamo visto anche operare la dialettica unione degli opposti: l'anarchia della società capitalistica e la sua capacità di autoregolazione, riflessa anche nelle opere urbanistiche ed architettoniche. Capacità conservatrice nel rimettere ordine nel caos e perpetuare l'esistente, ma nello stesso tempo generatrice di forme nuove, in grado di spezzare i vecchi rapporti e indurre nuova urbanistica e nuova edilizia. In fondo è l'antica contraddizione fra "stabilità strutturale e morfogenesi", che contraddistingue la vita pulsante nella biosfera. Se la metropoli tentacolare ha coperto la campagna, fenomeni di regressione sono già in atto e gli esempi che abbiamo riportato (fusione fra verticalismo e orizzontalismo) indicano una lunga fase di incertezza che sta già per essere lasciata alle spalle. Una più marcata disgregazione delle forme e una più radicale compenetrazione degli spazi sarà probabilmente il terreno di prova dell'architettura borghese nei prossimi anni. Perciò ci attendiamo di vedere presto uscire dal magma schizofrenico dell'architettura moderna, oscillante fra conservazione e anticipazione, qualche progetto che piazzi le prime cariche di dinamite sotto la più reazionaria delle "barriere architettoniche", quella rappresentata dalla consumistica abitazione per famiglia.

Se nella società futura dovrà dissolversi definitivamente la separazione fra la natura del lavoro agricolo e di quello industriale, dovrà esserci movimento di persone fra la casa e il luogo di produzione, terra o fabbrica, senza che questo significhi divisione sociale del lavoro e abitazione specializzata, rurale, urbana, suburbana, ecc. Una volta scomparsa la divisione sociale del lavoro e resa razionale la distribuzione delle città sul territorio (lasciando "selvaggia" quella parte del pianeta utile al metabolismo con le altre specie animali e vegetali), l'uomo non abiterà più "in città" o "in campagna", ma seguirà la sua spontanea tendenza storica alla vita comune, pienamente urbana, nel rispetto non solo della legge di Liebig da Bebel ricordata ma di un più completo e armonioso rapporto con il ricambio naturale.

Se dovrà dissolversi la famiglia patriarcale monogamica molecolare, per essere sostituita da rapporti liberi e non coatti fra i sessi, dovrà essere sconvolto lo spazio che essa oggi utilizza. Nasceranno certamente comunità diversificate, sulla base della consapevole e liberissima ricerca di forme di convivenza fra persone che non dovranno più uniformarsi al cubicolo standard. Quest'ultimo, più o meno esteso, smaschera l'architetto razionalista, funzionalista, purista, ultramoderno, che è in grado di modificare l'estetica ma non la sostanza, lascia cioè intatta la natura borghese della casa. Ammesso e non concesso che egli riesca a dire qualcosa di nuovo anche solo con l'estetica, dato che – come abbiamo già visto – proprio secondo il funzionalismo l'estetica deriva dalla funzione. L'estetica della casa razionalista non era disegnata da chi ci abitava ma dalla fabbrica. Qui sono caduti tutti, ma proprio tutti, persino gli "organicisti" come Wright, Aalto e Sharoun o gli eclettici nemici della linea retta come Hundertwasser. Essi hanno dovuto accontentarsi di vegetare in un limbo dai confini proibiti: indietro non potevano più tornare, avanti non potevano ancora andare. Goebbels disse di una casa razionalista progettata da Scharoun per un borghese dell'epoca: "Se uno si costruisce una casa così, vuol dire che la pensa così, e ciò è inammissibile". Eppure era il nazismo che costruiva fabbriche così. Evidentemente ciò che andava bene per una fabbrica non andava bene per contenere una sana famiglia borghese tedesca. I moderni non potevano costruire nello stile nazi-stalinista-rooseveltiano e neppure tornare all'Heimat Style della casetta di Heidi; ma non potevano, nazisti o no, neppure costruire case nuove. È interessante il fatto che proprio Scharoun, dal 1939 al 1945, abbia espresso la sua estetica più significativa in disegni fantastici di un ciclo che aveva chiamato "case del popolo", dove non c'è alcun riferimento al cubicolo famigliare, ma solo spazi astratti, volute di acciaio, vetro e cemento, con lo sguardo forse al costruttivismo russo e a Bruno Taut detto il "rosso", sbeffeggiato dai bauhäusler perché aveva osato usare i colori sulle facciate (fig. 20). Oggi prevalgono strascichi novecenteschi, ma domani nessuno si sognerà di chiamare "razionalismo purista" il parallelepipedo a tetto piatto, senza spiovente e senza gronda, che è una caratteristica mediterranea e non teutonica. Weimar, Berlino, Amsterdam, Mosca, il Canada e la Siberia, tutti i luoghi dov'è esplosa l'arte architettonica lineare e la "poesia dell'angolo retto", sono sullo stesso parallelo, in posti dove piove e nevica, dove la facciata liscia e bianca o più tardi cementosa si stria di sbavature mandando a ramengo il funzionalismo e l'estetica. Oggi il materiale e la funzione si stanno avvicinando e forse è anche questa una delle componenti che a Corviale fa mancare l'odio viscerale verso la propria casa ed evita che s'invochi la dinamite.

Case popolari a BerlinoFig. 20. Bruno Taut, Case popolari a Berlino.

Se dovrà dissolversi l'uso dell'antiquato mezzo di trasporto individuale, dovrà essere anche cancellata la cementificazione indotta e lo spreco di spazio ad esso collegato. Si risparmierà (risparmio in unità di energia, non di valore, finalmente) almeno il 30% di volumetria e assai di più in orizzontale, recuperando all'uomo lo spazio dei parcheggi ufficiali e di fatto (ogni città è oggi un gran parcheggio all'aperto e anche rimanere incastrati nel traffico è un po' come essere parcheggiati, tant'è vero che i londinesi chiamano il loro mega-raccordo anulare "the greatest parking in the world", il più grande parcheggio del mondo). Come diceva giustamente Le Corbusier, copiato dai progettisti di Cumbernauld di Pruitt-Igoe e di Corviale, occorre tenere separate le vie di traffico. Ebbene, la società nuova separerà più drasticamente ancora eliminando quello automobilistico privato, compenetrando gli spazi aperti e chiusi, lasciandoli attraversare dai flussi pedonali, collegati al trasporto collettivo. Con l'energia sociale che si eviterà di dissipare, sarà possibile escogitare mezzi di trasporto differenziati, adatti per ogni tipo di movimento, dai tappeti e rampe mobili ai treni, metropolitane o anche automobili pubbliche per muoversi nelle aree non attrezzate. Attentato alla individualità? Già oggi le classi abbienti rinunciano sempre più spesso alla proprietà e al possesso di molte categorie di oggetti, preferendo le forme di noleggio.

Se dovrà dissolversi la produzione per la produzione, la mercificazione degli oggetti, degli uomini e della vita intera, nessuno avrà più il bisogno di accumulare merci e ognuno, non possedendo nulla, avrà accesso a tutto, concetto caro ai primi cristiani, legati spesso in comunità comunistiche. Nelle nuove comunità, sparita l'abitazione privata, sarà facile l'accesso alla dimora, tenendo conto dell'immensa volumetria che, tolta al Capitale, sarà ristrutturata e consegnata agli uomini. La casa potrà non essere più un elemento fondamentale dell'esistenza, un assillo della vita o addirittura un incubo per il proletario che deve sborsare metà del suo salario al padrone o alla banca. Sarà invece un accessorio facilmente fruibile e sostituibile secondo le esigenze degli individui, siano questi raggruppati secondo interessi comuni o accoppiati secondo esigenze biologiche.

Se dovrà dissolversi la mercificazione della vita, non vi sarà più ragione di avere una suddivisione tra le sue fasi, tra tempo di lavoro e il resto, tra attività economica e ludica, tra tempo per gli altri e tempo per sé. Nell'ambito di un piano razionale di produzione e distribuzione, il cinema, il teatro, la musica, la lettura, il bricolage, ecc. non saranno attività associate ad un biglietto da pagare e neppure a ritmi o spazi particolari, dato che già la borghesia, se pure in modo triviale, ci mostra come si attrezzano spazi polifunzionali nei suoi "palazzi" di lusso d'uso collettivo. L'abitazione graviterà intorno a spazi comuni, facilmente raggiungibili e disponibili. Allora, come nelle comunità comunistiche primitive, sarà ridistribuito lo spazio e sarà data importanza alla funzione da cui sorgerà la nuova estetica.

Gli spazi "esterni" e quelli "interni" saranno intersecati nella realtà generale e non solo in qualche disegno o prototipo. Morirà finalmente la proliferazione insensata del triviale parallelepipedo, cui si sono inchinati per un secolo gli architetti. Sta già succedendo. La forma si sta decostruendo e nuove superfici e spazi prendono piede, per ora solo in edifici celebrativi della potenza del Capitale, teatri, sale da concerti, sedi prestigiose di uffici, musei (fig. 21). Ma sono sintomi della supremazia del nuovo sul vecchio e si fa più stridente ancora il contrasto fra l'involucro e il contenuto: mentre l'architettura d'avanguardia degli anni '20 non era accettata, quella attualissima che rompe con essa piace a tutti. Non è che il popolo "intellettualmente sottosviluppato" dei Gropius e dei Corbu sia stato nel frattempo "educato" da qualcuno, è che la funzione ha il sopravvento e nell'aria c'è del nuovo che preme. Dal punto di vista funzionale, basterebbe un niente ormai per far sbocciare l'architettura di domani. Anche il più imbranato studente di architettura si accorge che consuetudini e leggi ammazzano i volumi e gli spazi, li costringono entro schemi non più accettabili da un'umanità che ha fatto esplodere le sue metropoli e adesso deve ridisegnarle. Oggi lo studente ha a disposizione la città-vassoio di Le Corbusier, un piano su cui si appoggiano bottiglie verticali e stoviglie orizzontali lasciando gli spazi permessi dall'investimento, una unità complessa quanto si vuole, ma senza relazione con quello che gli sta attorno. Lo spazio ormai pretende una dialettica totale fra il pieno e il vuoto, la stratificazione è un risultato acquisito anche nei "palazzi" minoici, ma non può essere mortificata da volgari esemplificazioni piene di pilotis, parkway e grattacieli. Lo scavo e l'innalzamento permettono l'intersecazione di spazi verticali e orizzontali, veri giardini terrazzati e abitati, tetti percorribili (l'erba costa meno delle tegole ed ha un volano termico maggiore), volumi che non separano l'abitazione dal resto. Prendiamo gli esempi oggi interpretati trivialmente come "opera d'arte" individuale (di Rem Koolhas, Peter Eisenman, Ralph Erskine, Jo Coenen, Tadao Andao, Steven Holl, Alessandro Anselmi, Frank Gehry, Zaha Hadid, ecc.), e immaginiamoli distribuiti a comporre un'intera città, soprattutto immaginiamo una integrazione totale fra la dimora dell'uomo e il resto delle costruzioni: il capitalismo è marcio, ma c'è un futuro che esso prepara.

Bilbao Guggenheim museumFig. 21. Bilbao, il Guggenheim museum, particolare.

Ovviamente resta un abisso da superare dal punto di vista della resistenza politica dell'attuale società. La resistenza è quindi anche quella del parallelepipedo d'abitazione, dell'attitudine all'inscatolamento delle famigliole, dell'indistruttibile ed eterno trio d'appartamento o villetta: "camera-cucina-soggiorno". Di tutto ciò non ha "colpa" l'architetto, nonostante la sua naturale propensione a lavorare per lo status quo che produce parcelle. Non hanno colpa l'acciaio, il cemento armato, il vetro. Tolte le catene, eliminato l'involucro, il contenuto sarà in armonia con la funzione. Spariti il tornaconto speculativo, la famiglia, il calcolo sull'anticipo di capitale, sul cantiere e sulle spese di esercizio, la casa diventerà davvero un'opera d'arte, cioè progetto, contrapposizione alla casualità della natura, non utopia ma anticipazione di un oggetto reale che si vuole così e che si può volere.

I materiali dell'industria, che fecero nascere prima le fabbriche moderne e poi lo stesso stile nelle case, asseconderanno ogni necessità e quindi funzione e quindi estetica. Il cemento armato, oggi criminalizzato come se fosse il responsabile della speculazione e dello scempio, non è per forza legato a fabbricazione di moduli standardizzati; essendo di uso flessibilissimo, farà "scaturire strutture e membrature movimentate, curve, slanciate, a sezioni mutevoli, in una fecondità senza limiti… Gli aggetti, gli sbalzi, fioriranno facili e nuovissimi dai fianchi delle costruzioni, archi audaci e sottili diverranno possibili, nuove sagome come per incanto sorgeranno. La rigorosa verticalità deriva dall'uso tradizionale… Il conglomerato innervato dai tondi di acciaio, potendo resistere a sforzi di ogni direzione, svincola le costruzioni dalla schiavitù dell'estetica prismatica, ogni volta che ciò sia necessario ed utile". Non è l'apologia del venditore di un cementificio, ma, in un testo della nostra corrente, una potente escursione nella società futura che libera la materia da costruzione dai ceppi del profitto (cfr. Spazio contro cemento). Prendiamo allora il "palazzo" minoico, il "campo" di Qumran, la "città" di Chan Chan ecc. e fondiamoli in un organismo architettonico unico che ne conservi gli aspetti invarianti. Sbizzarriamoci con antichi e nuovi materiali utilizzati con nuove tecnologie: pietra, laterizi, legno, cemento, acciaio, vetro, strutture portanti, pannelli solari, scambiatori di calore. Aumentiamone le dimensioni e facciamone il modulo di complessi più grandi. Non costruiremo più città fatte di case separate, ma case-città o città-casa, organismi che saranno dimora per altri organismi. Com'è esplosa la produzione sociale e con essa la città, com'è superato il cervello individuale a favore del cervello sociale (cfr. n+1 n. zero), così esploderà la "casa". Superata la costruzione a compartimenti stagni, vincerà quella aperta, dove l'espressione "camera-soggiorno-cucina" sarà sostituita con "quartiere d'abitazione, quartiere delle attività sociali e quartiere delle attività domestiche". Dove l'espressione inglese living room non vorrà più dire "soggiorno", come adesso, ma, alla lettera, "spazio di vita". Avremo così unito dialetticamente la distribuzione razionale della specie sul territorio, l'eliminazione della storica contraddizione città-campagna e il mantenimento della vita urbana (Figg. 22-23-24).

Adolf Loos studio per un grande albergoFig. 22. Adolf Loos, studio per un grande albergo, 1923.
Henry Sauvage studio per abitazioni a ParigiFig. 23. Henry Sauvage, studio per abitazioni a Parigi, 1928.
Zaha Hadid composizione decostruttivistaFig. 24. Zaha Hadid, composizione decostruttivista al computer (da un edificio realizzato a Cincinnati).

 

Letture consigliate

  • Partito Comunista Internazionale: Spazio contro cemento, ora in Drammi gialli e sinistri della moderna decadenza sociale, ed. Quaderni Internazionalisti; Struttura economica e sociale della Russia d'oggi, tutto il capitolo "Collegamento", ediz. Il programma comunista, 1976; La Russia nella grande rivoluzione e nella società contemporanea, stesso volume. Struttura economica e corso storico dell'economia capitalistica, Il programma comunista n. 3 del 1957 (riunione di Ravenna, "Colcosianismo industriale"). Tesi di Napoli, 1965, ora in In difesa della continuità del programma comunista, Ed. Il programma comunista, 1970.
  • Karl Marx, Il Capitale, Libro I, Capitolo Sesto Inedito, La Nuova Italia, 1972 (il titolo del capitolo citato nel testo non è nell'originale ma è stato aggiunto dal curatore).
  • Friedrich Engels, Descrizione delle colonie comunistiche sorte negli ultimi tempi e ancora esistenti, Opere Complete di Marx ed Engels, vol. IV, Editori Riuniti, 1972.
  • August Bebel, La donna e il socialismo, Savelli, 1971.
  • Wilhelm Reich, Psicologia di massa del fascismo, Mondadori, 1974; La rivoluzione sessuale, Feltrinelli, 1969.
  • Lev Trotsky, Rivoluzione e vita quotidiana, Savelli, 1977.
  • Nikolaj Cernycevskij, Che fare?, Garzanti, 1974.
  • Le Corbusier, Maniera di pensare l'urbanistica, Laterza, 2001.
  • Gert Kähler, Wohnung und moderne. Die Massenwohnung in den zwanziger Jahren, http://www.theo.tu-cottbus.de/wolke/deu/Themen/971/Kaehler/kaehler_t.html.
  • Alexander von Hoffman Why They Built Pruitt-Igoe, testo distribuito dall'autore su Internet all'indirizzo http://www.ksg.harvard.edu/taubmancenter/public.htm
  • Cumbernauld, The city on the hill, http://www.open2.net/modernity/3_10.htm
  • Nicoletta Campanella, Nuovo Corviale - Miti, utopie, valutazioni; ed. Bulzoni, 1995.
  • D'Arcy W. Thompson, Crescita e forma, Bollati Boringhieri, 1992.
  • Tom Wolfe, Maledetti architetti, Bompiani, 1982.
  • Leonardo Benevolo, La città nella storia d'Europa, Laterza, 2001.
  • Gillo Dorfles, L'architettura moderna, Garzanti, 1989.
  • George Modelski, Cities of the ancient world - An inventory, Department of Political Science, University of Washington, 1997.
  • Shemaryahu Talmon, Gli aderenti al Nuovo Patto di Qumran, Le Scienze n. 42, 1972.
  • Oscar Newman, Creating Defensible Space, U.S. Department of Housing and Urban Development, Office of Policy Development and Research.

 

Da: n+1, numero 9 settembre 2002