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Nella neonata società industriale la caserma d'affitto, nata come ingrandimento del palazzo gentilizio, ne conserva alcuni caratteri funzionali. Questo stesso tipo edilizio, con alcune varianti locali, diventerà poi in Europa, pensiamo ad esempio alle espansioni dell'Italia unificata (l'isolato umbertino a Roma, Firenze, Torino, Bari), il modello più diffuso di abitazione nelle principali città. Parallelamente alla casa urbana si sviluppa un'idea di alloggio comunitario (Fourier, Owen), autonomo dalla città e spesso pensato proprio come un'evasione dalla società urbana. Anticipazione dell'attuale cohousing, il Falansterio di Fourier e il Familisterio di Godin a Guisa dedicano gran parte degli ambienti alle attività comuni, impostando l'organismo architettonico sul mantenimento dell'equilibrio tra spazi pubblici a spazi privati, nel tentativo di raggiungere l'armonia tra vita individuale e comunitaria.

Queste piccole comunità, dette poi del socialismo utopico, erano strutturate come unità autonome tra loro e a dimensione conforme, autosufficienti non solo dal punto di vista della produzione agricola o industriale, ma anche per l'educazione dei bambini, le attività di svago e di socialità. Solamente da quando si è manifestata la necessità incalzante di produrre grandi quantità edilizie residenziali - sostanzialmente dagli ultimi due secoli - la cultura architettonica si è posta dunque il tema di come caratterizzare e di quale ruolo (urbano e dell'immagine dei singoli edifici o quartieri) dare alle abitazioni, fino ad allora facenti parte di un sistema piuttosto omogeneo e quasi sottotono, privo di effettive differenze, edilizia di base per l'appunto. Gli architetti si occupavano esclusivamente di edilizia specialistica, progettavano ville, palazzi ed edifici pubblici, piazze, sepolcri o monumenti commemorativi.

Fino alla Rivoluzione Industriale gli alloggi collettivi erano, come detto, legati a destinatari speciali o a strutture di assistenza prevalentemente a carattere religioso (si pensi ad esempio al Begijnhof di Amsterdam, fondato a metà del 1300).

Se tradizionalmente l'equilibrata disposizione degli spazi collettivi nella struttura urbana (così era dall'antichità, se pensiamo ad esempio al centro di Mileto) soddisfaceva il bisogno di diversificare il disegno urbano, dando forma ai luoghi collettivi fondamentali, con il deciso sbilanciamento del numero delle abitazioni rispetto a quello delle altre costruzioni, l'alloggio collettivo ha assunto un'importanza sempre maggiore anche dal punto di vista della formalizzazione e dell'articolazione volumetrica, attraverso la differenziazione dei dettagli e delle tecniche costruttive, la sperimentazione di impianti insediativi in parziale o completa autonomia dal contesto, l'uso di materiali eterogenei e nuovi.

Nato nei paesi scandinavi negli anni '60 e diffusosi poi in Europa e negli Stati Uniti, negli ultimi dieci anni è tornato di grande attualità il cohousing. Unità di vicinato elettive decidono di gestire in comune spazi e attività comuni dell'abitare, favorendo in questo modo il risparmio economico ed energetico, la condivisione di servizi (acquisto solidale, car sharing), ma soprattutto agevolando il supporto tra gli abitanti e lo sviluppo di reti di socialità e sicurezza.

Da: Luca Reale, La residenza collettiva, Sistemi editoriali