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In Italia, negli ultimi anni, l’attenzione verso il cohousing è costantemente cresciuta. È aumentato l’interesse dei media, della ricerca accademica e dei professionisti (architetti in particolare) e si sono moltiplicati i gruppi di cittadini che hanno cominciato il processo per la realizzazione di una comunità cohousing. Contemporaneamente sono giunti a conclusione i primi progetti di coabitazione (ad esempio Urban Village Bovisa 01, Cosycoh e TerraCielo a Milano, Numero Zero a Torino).

Ma cos'è, di preciso, il cohousing? In termini generali, è possibile definire il cohousing come una particolare forma d’insediamento residenziale, solitamente di dimensioni ridotte (qualche decina di abitanti), che si costituisce con l’obiettivo di creare una comunità coesa, dialogica, collaborativa. I residenti partecipano a diversi momenti di vita comunitaria (ad esempio pasti comuni, operazioni di cura e manutenzione dell’insediamento, attività sociali) e usufruiscono di alcuni spazi e servizi collettivi (si possono trovare, a seconda dei casi, lavanderia comune, sala da pranzo, spazi gioco per i bambini, sala relax, orto e officina bricolage, piscina o altre attrezzature sportive).

Tutto ciò avviene, però, senza sacrificare la privacy individuale, non si tratta, in sostanza, di una "comune": ogni famiglia, infatti, vive in un proprio appartamento, in proprietà o in affitto, completamente autonomo dal punto di vista funzionale. Con più precisione, si possono riconoscere cinque caratteristiche fondamentali del cohousing.

La prima è la multifunzionalità comunitaria: a fianco di funzioni più tradizionalmente residenziali sono sempre presenti servizi di vario tipo destinati alla fruizione prevalente da parte dei membri della comunità (solo in alcuni casi questi servizi sono aperti anche a persone esterne).

La seconda consiste nella presenza di norme costituzionali e operative di carattere privato: tali insediamenti sono regolati da un sistema di regole interne, di tipo sia formale (si tratta in questo caso di norme di diritto privato) sia informale, introdotte dai membri della comunità per garantirne la specificità e il funzionamento. Queste regole sono generalmente formalizzate nell'atto costitutivo della comunità e riguardano sia il funzionamento della stessa (ad esempio organi e meccanismi decisionali, gestione delle risorse economiche) sia diritti e doveri dei residenti (ad esempio regole di comportamento, gestione degli spazi collettivi).

La terza riguarda la componente valoriale. Nella maggior parte dei casi la comunità si costituisce sulla base di alcuni specifici valori: tra questi figurano spesso solidarietà, convivenza attiva, aiuto reciproco, inclusione, sostenibilità ambientale.

La quarta è rappresentata dalla selezione dei residenti: la formazione della comunità avviene per auto-selezione dei residenti, solitamente prima della realizzazione materiale dell’insediamento. Il "gruppo fondatore" indaga, solitamente in modo informale, le motivazioni e le attitudini alla vita comunitaria degli aspiranti cohousers, alla ricerca delle persone più adatte a comporre la comunità. Ciò che ne deriva è una sorta di “vicinato elettivo”: l’obiettivo di creare una comunità coesa, interattiva e dialogica determina infatti una necessaria ricerca di affinità tra i futuri residenti.

La quinta è rappresentata da auto-organizzazione e partecipazione dei residenti, un tratto peculiare della coabitazione. Spesso la gestione partecipativa comincia fin dai primi momenti di costituzione della comunità e può includere anche la progettazione materiale dell'insediamento; talvolta si limita solo alla gestione delle questioni relative al funzionamento quotidiano dell’insediamento.

Ma perché il cohousing è un fenomeno così interessante? Uno dei motivi è sicuramente il fatto che rappresenta l’arrivo, anche in Italia, di forme potenzialmente non di nicchia di auto-organizzazione residenziale, diffuse già da tempo in altri paesi, primi fra tutti gli Stati Uniti. Dove, secondo le stime più recenti, più di trenta milioni di persone vivono in una qualche forma di comunità residenziale privata. Quando si pensa a tali comunità private statunitensi si immaginano spesso luoghi elitari, destinati alle classi più agiate, caratterizzati da sofisticati sistemi di fortificazione, sicurezza e controllo (le cosiddette gated communities). Per quanto simili forme di comunità fortificate esistano – si tratta tuttavia di una minoranza, circa un decimo del totale – in verità esiste un’articolata tipologia di comunità residenziali private.

Alcune di queste hanno specifiche caratterizzazioni sociali o valoriali: ecovillaggi (l’enfasi è posta sulla sostenibilità ambientale e il contatto con la natura), comunità religione, retirement communities (comunità residenziali destinate a persone anziane), cohousing. Altre sono semplici quartieri o cittadine suburbane private, prive di una marcata caratterizzazione specifica, in cui alcuni servizi – ad esempio spazi per lo sport e la ricreazione – sono forniti su base comunitaria. In tutti i casi, si tratta forme di residenzialità collettiva cui i residenti aderiscono volontariamente, sulla base sia di certi valori o di un certo stile di vita condivisi sia di certi servizi forniti dalla comunità. A risiedervi, negli Stati Uniti, è un’ampia varietà di popolazione, diversa in termini sia di reddito, sia di etnia.

Dal punto di vista dei residenti le attrattive di simili comunità private – di qualsiasi tipo esse siano – sono evidenti: vi è, infatti, la possibilità di vivere in un ambiente di qualità, creato a misura delle loro esigenze e preferenze, con persone con le quali si condividono, ad esempio, passioni e valori. Allo stesso tempo, però, tali forme insediative sollevano interrogativi rilevanti: queste comunità residenziali favoriscono la segregazione sociale e l’omogeneità? Sono potenzialmente pericolose per la convivenza urbana? Vi è una differenza rilevante, ad esempio in termini di effetti urbani, fra diversi tipi di comunità residenziali (ad esempio cohousing e gated communities)?

Devono considerarsi una reazione ai problemi di convivenza e pluralismo urbano di tipo regressivo – fondata sulla chiusura e la ricerca dell’affinità – oppure possono essere interpretate come un modo, per quanto imperfetto, di ricostruire legami comunitari a scala locale e rispondere ad alcuni dei problemi (ad esempio sicurezza, degrado, scarsità di servizi) che caratterizzano molte città? Quale deve essere l’atteggiamento della autorità pubbliche nei loro confronti?

A tali quesiti la ricerca in campo urbano, oggi, non è ancora stata in grado di dare una risposta condivisa.

Da: Francesco Chiodelli, "Abitare collettivo", L'Architetto, n. 14 del 2014